Gregorio Scalise - Angelo Tassi

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IL PRINCIPE DELLA SOLITUDINE E LA LUCE

Non sempre è facile stabilire dei punti d’incontro. Forse è la cosa più difficile del mondo. Questo perché i punti d’incontro non esistono nella realtà, ma, come le idee (nuove o antiche) vivono solo nell’immaginario.
Per colmo d’ironia quest’epoca appare densa d’equivoci e miraggi, perché esiste l’immaginario, esiste la realtà e naturalmente esistono anche i “punti d’incontro”.   
Tuttavia, la “linea della realtà” passa come una lama tagliente, spartendo in zone d’ombra la volontà               
Di realtà e il desiderio dell’immaginazione.
Ne risulta che l’immaginario é vissuto come evasione: ovvero pochi hanno la forza di difendere l’immaginario come se fosse realtà. Dare alla fantasia statuto di esistenza è sempre stato compito di tutti gli artisti: ma solo alcuni hanno saputo trasfondere in questa difesa d’ufficio tutte le armi adatte ad un tale genere di battaglia; questi strumenti si possono perfino elencare; sono la volontà di resistenza, l’intelligenza e anche l’astuzia; la capacità analitica; l’intensità e la forza di saper ridurre la realtà ai suoi dati schematici e quotidiani; la chiarezza mentale; lo sguardo critico nei confronti dei residui reali che ereditiamo e la cui vocazione è di trasformarsi in mito dentro la nostra pelle, a nostro eterno scorno e a nostra incredibile ridicolaggine.   
La verità è che la verità si affina giorno per giorno, si confronta lungo la linea profondamente verticale dell’esistenza, si fa scintillare con l’orgogliosa modestia della corazza, nel momento di impatto che un uomo ha scelto come definitivo lungo l’ascissa del suo tempo, e del suo rapporto con le cose.
In quest’operazione, in questo lampo di verità, “il principe è solo”. La luce che in questi palazzi dell’immaginario e del residuo antropologico sciabola lo spazio semibuio e deserto dell’obbedienza, si presenta come dannazione o come premio. Dipende dall’uomo (dal principe) e dal suo contatto con “ l’aperto”.
E’ strano di parlare di apertura in questi luoghi indicati da Tassi. Qui il mondo sembra assente. Ingobbito da un peso che si configura nell’arido segno del comando, il principe agonizza nella sua irreale solitudine. Non lo ristorano né il cibo né la solenne lama di luce che concentra in sé i massimi principi: bene e male, vita e morte, felicità o dannazione.
Ma se la luce, come è stato detto (dai neoplatonici in qua) è tutto, è anche vero che la sua oscillazione determina il momento reale della sua ricezione: o come gioia o come colpa di vivere.
Il mondo contemporaneo sa vacillare (e lo abbiamo visto tutti) sotto la variazione di questa percezione. Ma ammettiamo per ipotesi (come la divisione manichea) che due siano gli archetipi conduttori di Tassi: Bacon e Eliot.
Hanno questi due artisti della nostra recente archeologia un punto in comune? Potrebbe “in una notte d’inverno un viaggiatore” affermare che in qualche modo il loro soffio s’incrocia nei quadri di Tassi? Supponiamo che il viaggiatore abbia intuito qualcosa di giusto (e sì da sempre torto malvolentieri ai viaggiatori).
Queste due ombre giocano la loro particolare assenza forse nel modo tecnicamente ineccepibile: scelgono non il palcoscenico né la corporazione dell’attore, ma il luogo    del suggerimento   lo sfondo protettivo.
Il principe è solo nella spartizione, sia essa di brutale comando, di subdola persuasione o di semplice e drammatica scelta fra la gioia e la colpa.
Sarebbe semplice dire, quasi marcusianamente, che l’uomo del potere non può scorgere la luce come colpa; ostacolerebbe la sua coscienza il lasciato di massima persuasione che il vertice della scala gli assicura. Bacon allora, scarnificherebbe l’uomo sino a ricomporlo nei suoi lati grotteschi; non più umanità, ma complesso di frammenti antropoidali che il riflesso dei comandati riverbera su quella larva, prima assente e poi ricostruita dalla sottomissione degli altri. Eliot (ma si tralascerà il comodo riferimento a “Gli uomini vuoti”), immaginerà ogni cosa in una precoce senilità, segno di cuore pesante e di solitudine senza scampo; la passione per ciò che anima l’assenza – Dio – restituirà il tempo dei “Quattro quartetti” forse un lungo “ borbottio” (come stranamente si esprime Wilson) lungo il taglio ventoso del tempo.
E’ probabile tuttavia che l’uomo contemporaneo, fra tutte le cose che compie, ne debba fare una soltanto e in modo decisivo.
Rompere l’omertà della colpa, fare emergere dal fondo abbuiato del suo petto una scintilla di luce, un momento di vitale assenso. Saprà quella fiamma fondere le lunghe ore di gelo? Non può essere il compito di un singolo e non è neppure questione di tempo. Forse il teorema è solo della volontà.
Ma i grandi maestri, come si sa, non vogliono (o non possono) conferire fiducia agli uomini, i quali, d’altro canto non la meritano; gli uomini, come bui monaci di un “monastero di massa” (esseri posseduti dal demone meridiano) sfuggono come la peste al taglio di luce, e abitano più volentieri nella trasgressione e nella colpa. E allora gli artisti, con lavoro paziente, ricostruiscono frammento su frammento la follia, l’essere profondamente brutto e ridicolo degli uomini, la maniacale demenza che affiora nella scelta apparentemente diabolica, di ridurre il meraviglioso dell’esistere al dato brutale del vivere day to day.
E’ di quest’incapacità di amministrazione esistenziale che il principe è consapevole. Ne è garanzia indiscussa la sua tremenda solitudine. Se il principe è anche un artista, potrà scegliere se parlare della gioia o della colpa. Generalmente il novecento ha scelto il linguaggio della colpa. Ma a questo punto anche questo argomento, è tecnicamente irrilevante.


                                                                                                                Gregorio Scalise

                                                                                                                 (Ottobre 1983)  

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